Situato sulle rive del lago di Bracciano
(Anguillara-Trevignano), il museo gode di una cornice naturale eccezionale, in
cui le tranquille acque del lago sembrano protrarsi all’interno del museo
stesso attraverso le grandi vetrate che si affacciano sul lago. Questo è in
effetti il più antico sito aeronautico italiano, dal quale nel 1908 si levò in
volo il primo dirigibile militare della nostra storia aeronautica. Non poteva
esserci luogo più adatto ad ospitare una delle più grandi collezioni di
aeroplani al mondo, che si estende attraverso quattro grandi hangar adiacenti,
su una superficie di oltre 10.000 metri quadrati, e spazia nel tempo dagli
albori del volo a motore agli aviogetti dei nostri giorni. A Vigna di Valle, la
moderna base aeronautica che accanto al museo ospita diverse strutture e impianti
dell’Aeronautica Militare, si è dunque virtualmente conclusa la narrazione
storica che - partendo dal 1903, anno fatidico in cui i fratelli Wright si
levarono in volo per la prima volta con un rudimentale aeroplano a motore - si
è sviluppata lungo un periodo di circa trenta anni, fino alla definitiva
affermazione del mezzo aereo, poco prima che il mondo cadesse nel vortice della
seconda guerra mondiale.
Superata la vasta sala di accesso, nella quale figura il
busto in bronzo di Maurizio Moris, l’ufficiale del Regio Esercito che
l’Aeronautica Militare considera il padre fondatore della forza armata, ad
accogliere il visitatore c’è proprio il celebre biplano dei fratelli americani,
costruito su licenza a Parigi ed acquistato da Moris al prezzo di 25.000 lire. È il quarto esemplare
realizzato in Francia, Flayer n.4, in tutto simile a quello che nel 1903 aveva
inaugurato l’era del volo a Kitty Hawk nella Carolina del Nord. L’impatto
visivo non può non destare una certa meraviglia, un pizzico di emozione e anche
un attimo di incertezza. Colpisce anzitutto la doppia ala, e poi la sua ampia
apertura, e non ultima l’estrema semplicità del mezzo, di cui peraltro si resta
incerti nel decidere quale sia il muso e quale la coda. Finché la nostra guida
non spiega che le eliche sono spingenti
e non traenti e perciò sono collocate
sul retro, mentre quei piani che sembrerebbero una coda sono in realtà delle
superfici atte a stabilizzare in qualche modo l’aeroplano e perciò collocate
sul davanti. La macchina non può non suscitare qualche perplessità, eppure su
questo “Flayer” impararono a volare con l’insegnamento proprio di Wilbur Wright
i primi due piloti italiani, giovani tenenti entrambi, uno della Marina e
l’altro dell’Esercito. È appena il caso di ricordare a questo punto che nel 1909 l’Aeronautica, in
quanto istituzione autonoma, non era ancora nata, e dunque Esercito e Marina
fornivano gli aspiranti piloti.
Tutto intorno nella superficie dell’hangar in cui ci
troviamo, ma anche dal soffitto, campeggiano vistosi aeroplani di chiara
impronta pioneristica, dall’aspetto suggestivo e non privi di una certa aria
romantica che fa pensare ai “cavalieri del cielo” e a quei pazzi temerari sulle
macchine volanti. Tra tutti si impone per dimensioni un altro biplano, che
allarga le ali per ben 23 metri. È un bombardiere della 1a Guerra Mondiale nato
nelle officine di uno dei maggiori costruttori aeronautici italiani, l’ing.
Gianni Caproni, che incontreremo ancora – ci dice la nostra guida – alla fine
del nostro percorso, come realizzatore di un altro celebre “pezzo” in
esposizione.
Intanto scopriamo che questo bombardiere, datato 1913, fu
protagonista di molte incursioni durante la Grande Guerra, ad alcune delle
quali prese parte anche Gabriele D’Annunzio. Il poeta ci rimanda ad un altro
aeroplano esposto lì accanto: è uno di quelli che parteciparono al celebre raid
su Vienna lanciando manifestini che invitavano l’Austria alla resa. E poco più
oltre ecco il velivolo col quale il nostro più famoso asso dell’Aviazione,
Francesco Baracca, conquistò molte delle sue vittorie in duelli aerei.
Entrambi gli aeroplani, quello del poeta e quello
dell’asso, sono realizzati in legno e tela e conservano intatto il fascino di
un’epoca che, ancorché segnata dagli eventi tragici, portava in sé i caratteri
dell’entusiasmo e della passione per la nuova avventura del volo.
Stiamo per raggiungere la seconda area espositiva,
tralasciando qualche altro esemplare che pure desta una certa curiosità, come
uno splendido modello dalla lucente struttura metallica appostato proprio
all’ingresso del secondo hangar. L’impiego del metallo è il segnale
dell’evoluzione, infatti siamo all’anno 1925. Ma il legno e la tela resisteranno
ancora come materiali di costruzione aeronautica, magari in abbinamento,
legno-metallo o metallo-tela.
La visione che si presenta all’ingresso nella seconda
area toglie per un attimo il respiro! Non si sa dove guardare e da dove
incominciare. Questo è il regno dei cilindri e dei pistoni, quando i motori
diventavano sempre più potenti ed efficienti, e gli aeroplani sempre più veloci
e sicuri. Siamo immersi nel tempo degli idrovolanti, quegli aerei che
decollavano e “atterravano” nell’acqua, ai quali è legata una straordinaria
epopea di successi, a cominciare dalle favolose imprese delle crociere di massa
attraverso l’Oceano Atlantico, compiute ad opera della Regia Aeronautica per la
prima volta al mondo. Per dare un’idea visiva della loro portata, qui sono
ricostruite con modellini all’interno di enormi bacheche le formazioni dei 12
idrovolanti che nel 1931 raggiunsero Rio de Janeiro e dei 24 che due anni dopo
apparvero sul cielo di New York, suscitando un vero e proprio delirio di folla.
Sia pure in scala, l’effetto di insieme di una tale ricostruzione non può non
lasciare ammirati.
Sembra quasi incredibile che contemporaneamente a tanto
dispiego di tecnica e potenza, si svolgessero anche esaltanti imprese di altro
genere che vedevano ancora protagonista di successo il dirigibile. Al Museo è
visibile l’interno della navicella che era appesa sotto il gigantesco involucro
gonfio di gas.
Più oltre, l’attenzione è letteralmente catturata da uno
scintillante “trittico” di un acceso colore rosso. Si tratta di tre idrovolanti
da corsa, tre purosangue li definisce la nostra guida, dalle linee eleganti e
affusolate. Appartengono tutti e tre alla leggendaria epopea della Coppa
Schneider, una gara aviatoria dei tempi in cui l’aviazione era anche
competizione sportiva, disputata a colpi di ingegneria e tecnologia. Tutti e
tre sono di produzione della società Macchi e l’ultimo in particolare è tra le
più avanzate realizzazioni dell’epoca (siamo nel 1934) e costituisce uno dei
velivoli più belli ed interessanti mai costituiti.
Con questo Macchi MC 72 il motore ad elica ha raggiunto
il massimo delle sue possibilità. L’era dell’elica, quanto a capacità di spinta
e di forza, si ferma qui.
È arrivata
l’epoca del motore a reazione! Ed eccolo infatti campeggiare nella parete di
fondo dell’hangar, il primo aviogetto di ideazione e costruzione italiana, nato
nel 1940 ad opera delle officine Caproni, le stesse del bombardiere in legno e
tela esposto nell’area precedente. Non siamo ancora al vero e proprio motore a
getto, ma la strada è quella che porterà a realizzarlo.
Su questo scenario storico cala la pesante cortina della
seconda Guerra Mondiale.
La rinascita dell’aviazione, unitamente a quella del
paese, avverrà alla fine del conflitto. Il Museo dedica a questa nuova fase di
sviluppo aeronautico tutta la seconda parte del suo spazio espositivo che
giunge fino ai moderni aviogetti militari (al momento però questo settore non è
visitabile perché in corso di restauro).
Usciamo nel piazzale
sulle rive del lago. È una tiepida giornata
primaverile e sul lago sono apparse molte vele bianche. In fondo al piazzale un
vecchio aeroplano dagli sgargianti colori giallo e arancione sembra attendere
il suo turno di prendere il posto che gli spetta all’interno del Museo. (Col. Roberto Scaloni)