giovedì 31 maggio 2012

Ho conosciuto in te le meraviglie

Ho conosciuto in te le meraviglie  
meraviglie d'amore sì scoperte  
che parevano a me delle conchiglie  
ove odoravo il mare e le deserte  
spiagge corrive e lì dentro l'amore  
mi son persa come alla bufera  
sempre tenendo fermo questo cuore  
che (ben sapevo) amava una chimera.

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Alda Merini
da ‘Le rime petrose’, edizione privata, 1983
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Mi lascio coinvolgere dalla bellezza di questa poesia.
Merini: la sacerdortessa dell’amore, il saggio tra i dissennati, la poeta più letta dei nostri tempi.
Di questo componimento mi colpisce dapprima il suono delle parole, una rima alternata di tipo abab/cdcd che ci ricorda che la poeta, pur affrancandosi spesso dalle leggi della metrica tradizionale, ne è comunque profonda conoscitrice e virtuosa.
Decido di immergermi allora nello studio di questi versi e ne scopro un’infinita eleganza e compostezza formale.
L’amore porta con sé ‘meraviglie’, parola e concetto potenti, fatti di stupore e incanto. Un concetto così alto da dover essere ribadito in apertura del secondo verso (anadiplosi) e preludio alla metafora nella quale ci porta l’autrice nel terzo verso, quella delle ‘conchiglie’.
La conchiglia, che in tutta l’iconografia classica è simbolo femminile per eccellenza, è qui mezzo, strumento. A molti l’immagine di una conchiglia richiamerà immediatamente il suono del mare, invece per la Merini è un rimando al senso dell’olfatto, quell’‘odore’ così noto eppure così sempre evocativo. Con esso l’immagine delle ‘deserte/ spiagge corrive’, divise da quell’enjambement così evidente tra il quarto e il quinto verso.
La poesia ci porta altrove, ‘dentro l’amore’, un non-luogo nel quale inevitabilmente ci si sente spaesati, disorientati, sopraffatti. La poeta ci racconta di come si sia ‘persa’ nell’amore nel paragone con la ‘bufera’.
Cosa può esserci di più sconvolgente e al contempo creativo di una bufera? Tempesta e passione (Sturm und Drang) avevano scritto gli antesignani del Romanticismo alla fine del 700.
Nel penultimo verso Merini tuttavia ci soprende: donna matura, esperta, forte, ci dice di aver saputo fare fronte allo straniamento dell’amore ‘tenendo fermo questo cuore’. Non posso non notare che il ‘cuore’ faccia rima con ‘l’amore’ del quinto verso, una rima sulla quale si è scritto e detto tutto, sulla quale ormai nutriamo un atteggiamento di snobismo e superiorità come se tutti fossimo capaci di renderla in questa maniera. Ebbene Merini ci dimostra come questo assunto sia quanto mai infondato. Sebbene le due parole possano essere messe in rima perfino da un bambino o dal meno ispirato dei cantautori, quanti sarebbero ancora capaci di una tale sobrietà? Questo non è mestiere. Non si impara. Così come non si può imparare a usare la parola ‘amore’ per ben due volte in appena otto versi senza che questa diventi melliflua e stucchevole.
La chiusura del componimento è struggente. La poeta fa una dichiarazione di consapevolezza, un’amara e razionale presa di coscienza di un sentimento che ‘(ben sapevo)’ insegue un mito, un sogno, un abbaglio, qualcosa di inafferabile e di natura incerta, ‘una chimera’, per l’appunto.
Ma in fondo non è (anche) questo il senso dell’amore?
Lasciarsi andare in una tempesta di emozioni, in un mare agitato, perchè pur sapendo che si tratti di un incantesimo... abbiamo bisogno di conoscere sempre nuove ‘meraviglie’.